In questi ultimi mesi il coronavirus si è imposto inesorabilmente come tema principale delle nostre riflessioni, stravolgendo radicalmente le nostre abitudini e il nostro modo di guardare al mondo. Tutto è cominciato lentamente, in sordina, pensavamo che il pericolo fosse lontano, dimenticandoci di vivere in un mondo globalizzato, o che alla fine come era accaduto per altre epidemie, in particolare la SARS nel 2002, l’allarme ad un certo punto sarebbe rientrato.
All’improvviso ci siamo ritrovati, nostro malgrado, a discutere di argomenti complessi e del tutto improbabili fino a poche settimane prima. E lo abbiamo fatto spesso senza avere le conoscenze adatte, spinti dalla necessità di comprendere quanto accadeva attorno a noi. Le pandemie erano certamente tema affascinante per studiosi, ricercatori e forse storici ma non di certo argomento di discussione per il grande pubblico.
Errori di valutazione non sono mancati neanche tra gli esperti e in tanti hanno dovuto ritrattare in fretta le loro dichiarazioni, la minaccia è stata sottovalutata e la situazione a un certo punto ci è sfuggita di mano. Ai riti sacri temporaneamente sospesi per evitare assembramenti si sono sostituiti i riti laici delle conferenze stampa della Protezione civile e i messaggi Urbi et Orbi del presidente del Consiglio.
Un’immensità di bufale ha presto invaso il web e siamo finiti per farci guidare dai versi dello storico greco Eracleonte da Gela, una lettura figlia della conoscenza dei grandi classici, certo degna di un governatore, se non fosse che lo storico in questione non sia mai esistito. Un peccato.
Mai come ora abbiamo tutti sentito il bisogno di rifugiarci nella competenza, ora che problemi nuovi si affiancano ai vecchi classici e che tutti i settori sono chiamati ad innovarsi.
Del tutto nuova è la necessità di stabilire con urgenza criteri, procedure e meccanismi per provare a gestire una pandemia.
La politica ha dovuto interrogare la scienza per fondare le sue decisioni, ma ha risposto poi con il suo solito linguaggio: una folta schiera di atti nazionali che fa strada a una carovana interminabile di provvedimenti regionali e comunali (un primo assaggio lo avevamo avuto con le sempre più nuove autocertificazioni) ispirate da almeno 40 task force e 240 consulenti.
Una vecchia conoscenza è invece la questione che vede, in una democrazia, la necessità di bilanciare vari diritti in caso di conflitto. Il diritto alla salute da una parte, il diritto al lavoro e le libertà personali dall’altra.
Tema che, con i dovuti distinguo, abbiamo visto già essere centrale in alcune vicende nazionali (tra tutte l’Ilva di Taranto) e che ora investe i decisori politici chiamati a gestire l’emergenza.
In Giappone ad esempio la costituzione vieta alle autorità di imporre ai cittadini giapponesi misure di isolamento, limitandosi alla raccomandazione.
L’Italia su questo punto ha scelto la linea dura, e molti Paesi, malgrado un’iniziale riluttanza e seppur con diverse sfumature, l’hanno seguita.
Se in un primo momento la scelta tra salute e altri diritti può apparire quasi scontata, lo diventa sempre meno con il passare del tempo. Il lockdown ha un prezzo economico e sociale difficilmente sostenibile nel lungo periodo e con il virus bisognerà conviverci ancora a lungo. La tecnologia permette di rispondere con mezzi efficaci all’esigenza di monitorare e di contenere la diffusione del contagio, ma dopo anni in cui abbiamo ceduto senza troppi riguardi i nostri dati personali, in particolar modo ai grandi colossi del web come Facebook e Google, la privacy e la sicurezza dei nostri dati tornano ad avere un ruolo centrale.
Dare soluzioni a queste istanze non sarà impresa facile e la politica verrà giudicata in base alle risposte che saprà dare, nell’era del Covid19 ci auguriamo che non ci sia più spazio per i soliti teatrini a cui siamo abituati, se lo Stato decidesse di non decidere, come spesso già è accaduto, qualcun altro lo farà al posto suo, la fuga in avanti delle Regioni o di altri soggetti non farà altro che alimentare una situazione già di per sé caotica.
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